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国パルディの小部屋
5. I MIEI RICORDI ITALIANI: Premessa
Sono già passati dieci anni da quando sono andato in Italia per la prima volta. Ormai i miei primi ricordi italiani hanno iniziato a sbiadire. Anche se l’esperienza che ho vissuto rimarrà comunque nel fondo della mia memoria, adesso vorrei ricordarmene in modo più vivo. Tento di ricordarmi di tante cose, dal nome dei tutti i membri della famiglia ospitante, a un disegno che ho fatto nell’istituto d’arte. Non vedo l’ora di cominciare a scrivere perché ricordandomene forse potrò rivivere questa esperienza così cara a me pur adesso che la tengo in modo molto vago. Potrei dire che quella esperienza sia stata un embrione che poi è diventato la parte costituente della mia personalità attuale. Così spero questa prova sia utile anche per il motivo della ricerca di me stesso.
5. I MIEI RICORDI ITALIANI: Capitolo I. Primo Shock
Come si può immaginare facilmente, per un giapponese sedicenne di condizione normale, la cultura occidentale è più che ignota. La prima scena italiana di cui mi ricordo ancora è una grande assemblea dove si trovavano i ragazzi stranieri appena scesi dall’aeroplano e le famiglie ospitanti che venivano a prenderli. Un uomo sul palco annunciava il nome dei ragazzi stranieri accoppiandoli con le famiglie che li avrebbero ricevuti. Questa scena, l’osservavo timorosamente con i miei compagni giapponesi che mi accompagnarono durante il volo di quindici ore.
I miei compagni giapponesi erano in tutto sette. Siccome tutti questi si sono subito separati in diverse parti dello stivale, adesso mi ricordo solamente di tre di loro. Uno si chiamava Yutaka ed era di Kansai. Questo ragazzo dovrebbe essere il primo “Kansaiano” che ho conosciuto nella vita. Il suo modo di comportarsi coincideva perfettamente con l’immagine stereotipica che un qualsiasi del Kanto (e pure io lo sono) avrebbe della gente di Kansai. Parlava tanto e sapeva usare la tecnica di Tukkomi (l’arte della comunicazione orale che si usa per allargare uno scherzo pronunciato da qualcuno altro: i Kansaiani sono considerati unica gente che la padroneggia). Mi ricordo di lui forse per questo. Dopo che fu chiamato dall’annunciatore io non lo vidi più. Di due altre invece me ne ricordo molto meglio. Una si chiamava Mina e l’altra Noriko. In certi occasioni di quel anno ci siamo visti perché abitavamo vicini (io a Trento, Mina a Verona e Noriko a Bolzano). Del resto le vedo anche adesso ogni tanto. Recentemente Mina mi ha inviato una posta elettronica con cui mi ha fatto sapere che si sarebbe sposata fra poco.
Queste due ragazze furono chiamate prima di me. Così io vedevo da lontano la scena della presentazione tenuta fra loro e le loro famiglia ospitante. Sorpreso dai baci, abbracci e tanti altri gran gesti di cui d’altronde avevo sentito parlare o letto qualcosa, preparavo per il mio turno. Pronunciato il mio nome, salii sul palcoscenico. E la “Famiglia Zanotelli” mi raggiunse. La madre, il padre e i due figli. Mi sembrò che mancasse un figlio. Il padre mi tese la mano e ce le stringemmo. Non ci furono i baci (tanto non sapevo i baci erano necessari anche fra gli uomini o no). La madre mi diede dei baci ma senza esagerazione. Non so se questa prima esperienza dei baci come saluti andasse liscia o meno, fu comunque questione di un momento. Con i due ragazzi mi presentai in modo identico a quello con il padre. Poi abbastanza meccanicamente ci fummo allontanati via per dare luogo all’incontro successivo. Il padre precede, la madre con me e i ragazzi ci seguirono.
Avevo saputo i nomi dei membri della famiglia attraverso un documento che mi era stato mandato prima che venissi in Italia. La famiglia Zanotelli: il padre Ferruccio, la madre Maria Mina Venturelli, il primogenito Nicola, il secondogenito Livio e l’ultimogenito Pietro. Che la madre avesse tre nomi diversi dinanzi tutto mi fu un enigma. Quindi ebbi il coraggio di chiederle come chiamarla anche perché in Giappone il modo di chiamarsi dipende tanto dalla situazione e dal rapporto, e non avevo proprio nessuna idea di come chiamarla. Così emisi una frase in inglese, che dovrebbe essere stata mal pronunciata ma in ogni modo molto facile da interpretare: “ How should I call you?”
La risposta era quella inaspettata. “Noi non parliamo l’inglese”. La frase fu ben articolata. Ma forse non per questo o nemmeno per la mia capacità linguistica, capì perfettamente di cosa si trattava. Avevo studiato l’inglese da 4 anni e l’italiano da 3 settimane. Ma dovetti scegliere quest’ultimo e abbandonare il primo. E poi solo circa tre mesi dopo, quando cominciai a essere in altezza della comunicazione quotidiana, che capì che quelle prime parole della madre avevano doppio senso.
5. I MIEI RICORDI ITALIANI: Capitolo II. Prime parole italiane
La casa della famiglia Zanotelli era estremamente grande per me che ero abituato alle case giapponesi. C’erano quattro piani: nel pianterreno c’era l’ingresso e un appartamento che avevano affittavano ad un irlandese di nome Sean; nel primo piano oltre al salone e alla cucina, c’era un grande ripostiglio dove si poteva anche giocare a pingpong; nel secondo piano c’erano due camere da letto per i ragazzi e una grande stanza per Ferruccio-Mina; nel terzo piano c’era una mansarda con una camera da letto. Non mi ricordo bene come e perché finimmo là, ma dopo il mio arrivo a casa loro (che subito divenne “nostra”), mi ritrovai con Livio in quel ripostiglio a giocare a pinpong.
Allora io non conoscevo affatto l’italiano. Ma il problema ancora più grande era forse quello di non saper esprimermi senza parole. Giocavo a pingpong senza divertirmi e sapevo che neanche Livio si divertiva. Eppure, non dicevo nulla. Continuavo a giocare senza parole e senza divertimento, forse proprio per non dire niente. Dopo un paio di minuti di gioco silenzioso e imbarazzante, il ghiaccio fu rotto da Livio che disse; “Basta, io sono stanco”. Non capii le sue parole o, forse, non seppi come rispondere. Il risultato era lo stesso: non dissi nulla. Livio ripete la frase: “IO SONO STANCO”. E questa volta aggiunse dei gesti: le due mani giunte affiancate a una delle sue guance con il capo reclinato.
Non fu lui, ma fui io ad andare a letto. Dormii molto: dovevo essere esausto e spossato perché nelle ultime ventiquattro ore, tutte le mie esperienze erano state del tutto inaspettate, e quasi stravolgenti. In quell’anno, ero come un bambino; assorbivo tutto quello che toccavo, e dormivo in qualsiasi momento e in qualsiasi posto dove era possibile dormire. Un bambino. Proprio così. La mia bocca non parlava, le mie orecchie non ascoltavano, il mio cervello non sapeva dirmi dove andare né come comportarmi; insomma non sapevo vivere. Rinascere e crescere in un altro modo: così fu la mia vita italiana. Essendo tornato un bambino di nuovo mi accorsi delle cose che avevo dimenticato crescendo: quanto fosse difficile vivere senza saper vivere e quanto fossero importanti le persone che mi aiutano a sopravvivere.
Mi svegliai di sera quando mi chiamarono a tavola. La prima cena, come tutte le altre cene di quell’anno, mi divenne una lezione d’italiano. “Pomodoro”, “formaggio”, “bicchiere” ecc. Le parole con più di tre sillabe mi suonarono estremamente difficili. Ma l’espressione che mi risultava ancora più complicata era: “Grazie altrettanto”. Provai a pronuncarla più di una volta e non ci riuscii: non avevo mai mosso la mia lingua così esageratamente. Per fortuna, anche la sera seguente ebbi l’occasione di usare la stessa espressione. Fu allora, o forse la sera ancora successiva, che imparai questa espressione.
Io faccio errori e la famiglia Zanotelli li corregge; così iniziai pian piano a parlare l’italiano. Se imparai l’italiano abbastanza velocemente, questo lo si deve soprattutto alla mia seconda famiglia, che seppe trattarmi con un miracoloso equilibro fra la severità e l’affetto.
In uno dei miei primi giorni, ci fu un incontro-festa dei ragazzi stranieri che erano venuti in Italia a studiare nelle scuole superiori per un anno e che abitavano o a Trento o a Verona o a Bolzano. Nella parte iniziale della serata, io con gli altri ragazzi salii sul palco dove ognuno doveva fare la presentazione di se stesso. Pochissimi erano capaci di parlare in italiano e –ciò va sottolineato– io ero forse l’unico a non sapere parlare l’inglese. Fra due lingue che non padroneggiavo, io scelsi quella che conoscevo meno: l’italiano. “Mi chiamo Kosuke Kunishi. Sono giapponese. Mio papa è Ferruccio. Mia madre è Mina. I miei fratelli sono Livio e Piero. Mi piace il calcio. Grazie”. Il “pubblico” accolse la mia perfomance con applausi e sorrisi. Dopo la suddetta scena, mi sentivo quasi un eroe. L’unico straniero che aveva provato a parlare in italiano. Molti vennero a parlarmi e a darmi una stretta di mano. L’euforia della vittoria.
Che avessi commesso degli errori in quello speech, lo seppi solo qualche ora dopo, nella macchina con cui tornavamo a casa. Ferruccio mi disse: “Io sono tuo papà, non tuo papa, capisci?”. Sì, capii che Ferruccio era il mio papà. Ovviamente questo non voleva dire che io sapessi chi fosse quel papa senza accento.
5. I MIEI RICORDI ITALIANI: Capitolo III. l'istituto d'arte, perché era vicino
Dopo l'arrivo in Italia passai qualche giorno con la famiglia Zanotelli senza andare a scuola. Io non ero abituato a passare un periodo così lungo con la famiglia durante le vacanze estive: da una parte perché i miei genitori lavoravano (i giapponesi, in media, prendono in estate solo una settimana di vacanze); dall'altra perché in Giappone andavo a scuola anche durante le vacanze per giocare a calcio (un'alta percentuale di studenti giapponesi si iscrive, infatti, ad un gruppo scolastico chiamato "bukatsu"※1).
Iniziai ad andare a scuola, credo, solo verso la metà di settembre. Mi ricordo che di mattina faceva già freddo. La scuola superiore a cui mi assegnarono era un istituto d'arte di nome Alessandro Vittoria. Mi piaceva disegnare, ma non fu questo il motivo della scelta (che, del resto, non era mia). Semplicemente l'Alessandro Vittoria si trovava vicino a dove abitavo. Ma, al di là della vicinanza, c'era un fatto che giustificava pienamente tale assegnazione. Per frequentare quel tipo di scuola non era indispensabile una conoscenza approfondita della lingua italiana perché durante la maggior parte delle lezioni si facevano attività di tipo pratico. Se, quell'anno, ero in Italia per imparare l'italiano, almeno per i primi mesi avevo bisogno di un altro canale di comunicazione. L’idea che l'arte fosse una lingua universale in genere non mi piaceva né mi convinceva troppo, ma era appropriata in quel contesto.
La mia classe "III B" era composta da una quindicina di ragazze più o meno mie coetanee e da due "uomini" che avevano già più di venti anni. Uno di questi si chiamava Davide, aveva i capelli bianchi, ed era abbastanza spesso assente da scuola. Provavo una particolare simpatia nei suoi confronti, poiché era un uomo indipendente. Portava al polso più di un orologio: uno regalato dalla sua fidanzata, un altro dalla sua ex-fidanzata, il terzo dalla sua exex-findanzata, e così via. Durante le ore d’educazione fisica solitamente giocavo a calcio solo con lui. Per noi il calcio era un argomento condiviso: lui era milanista nato; io ero un simpatizzante del Parma di fresca data. Un giorno quando gli chiesi: "Come stai?", mi rispose: "È difficile stare meglio di così". Imparai allora che a tale domanda si poteva rispondere in qualsiasi modo a seconda di quello che si sentiva veramente e non solo "Sto bene!" così come avevo imparato in Giappone※2.
L'altro uomo era Roberto. Lui, invece, veniva regolarmente a scuola e stava spesso con le compagne di classe che erano molto più piccole. In lui, i comportamenti esemplari come studente coesistevano con alcuni elementi a dir poco fuorvianti: era sempre vestito da bad boy e il suo linguaggio era infarcito di parolacce. Ed io imparavo queste "parole" da Roberto, traducendole letteralmente in giapponese. Il problema allora era che nella mia lingua materna il turpiloquio è impercettibile se non addirittura inesistente※3. Il risultato inevitabile era che imparai solo i significati letterali (dunque osceni) di tali parole e che mi trovavo imbarazzato ogni volta che mi capitava di sentirne una. Molti ragazzi vollero insegnarmi parolacce italiane e imparare da me parolacce giapponesi e, cosa più sorprendente, ben poche ragazze esitavano a pronunciare queste parole che per il me di allora erano estremamete volgari. Anche se non mi era molto abituale riflettere sul meccanismo di questa lingua, la suddetta circostanza mi fece più di una volta pensare che l'italiano fosse una lingua terribile.
※1:I "bukatsu" sono gruppi scolastici in cui gli appartenenti svolgono vari generi di attività, sportiva o
culturale, al di fuori delle lezioni, ma sempre a scuola. Ed io facevo parte di un "bukatsu" di calcio.
※2:Nelle lezioni d'Inglese in Giappone, ad esempio, si impara che alla domanda "How are you?" si
deve sempre rispondere "I'm fine, thank you. And you?", come se questa serie di parole fosse
un'espressione idiomatica. Questo metodo meccanico di imparare delle espressioni di saluti deriva
forse dal fatto che nella lingua giappponese i saluti non dipendono dallo stato d'animo che ogni
individuo tiene.
※3:Il termine "parolaccia" già è difficile da tradurre nella mia lingua. Le parole che designano cose
oscene certamente esistono, ma non vengono usate in modo metaforico. Quasi unica eccezione è la
parola "kuso", che letteralmente significa "merda", ma si usa nelle situazioni in cui un madre lingua
italiano direbbe "accidenti".